The Return Incidents, Topic di Scrittura

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• Mirage
view post Posted on 11/10/2012, 20:04 by: • Mirage
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La scorsa notte, Castello di PoE, Camera di Dagon {e Ginevra}

Non se n’era andata, non ce l’aveva fatta. Dire che non ci aveva pensato era una bugia, ci aveva riflettuto a lungo, certo per quello che poteva definirsi “riflettere” nello stato in cui il demone l’aveva lasciata. Ma anche in quella terribile confusione che le si era creata attorno, aveva mantenuto salda l’unica cosa che poteva definirsi il suo punto fermo: Dagon. E li, in quella stanza, Dagon era presente in ogni cosa e forse era proprio per questo che non era riuscita ad andarsene. O forse, anche, perché preferiva rimanere coerente con quel poco di coerente che c’era in lei, facendo la rompipalle, come lui amava definirla, fino all’ultimo, rimanendo li fino a che lui non sarebbe tornato e riprovarci, a parlare, a discutere, a scusarsi… Insistere. Ancora una volta, ancora mille. Non era più quella che scappava ad ogni problema, lo aveva promesso a se stessa e soprattutto a lui. Non sarebbe scappata, ma avrebbe trovato la soluzione. Tutto pur di riaverlo con sé, avrebbe fatto di tutto e mai questa parola aveva compreso così tanto.
L’aveva lasciata in piedi in mezzo alla stanza e ancora era li, non avrebbe saputo dire se erano passati secondi, minuti oppure ore, per quel che ne sapeva lei era già passata una vita intera da quando l’aveva lasciata. Lasciata. La parola le rimbombava in testa come un’angosciante cantilena che si ascolta per caso ma che non si riesce più a togliere dalla mente, perché è qualcosa di talmente insidioso che, anche volendo, turba così tanto da non poter fare a meno di pensarci.
Non ci credeva ancora e decise che non doveva crederci, che forse era un brutto sogno che durava da settimane e che ora era culminato in un incubo vero e proprio. Si convinse che, una volta sveglia, non se ne sarebbe neppure più ricordata e la sua vita sarebbe continuata così com’era prima di tutta quella confusione: lei e Dagon.. Soli. Neppure l’idea di un possibile figlio l’avrebbe mai sfiorata così com’era stato fino adesso. Invece, proprio come se l’avesse richiamato ai propri pensieri da un’epoca lontana, nella sua mente, nelle sue orecchie e, maledicendosi, anche nel suo cuore, risuonò di nuovo quel flebile rumore che era diventato parte dei suoi giorni.
Tum tum
Non avrebbe saputo come definirlo. Era più forte del battito d’ali di una farfalla, ma meno rumoroso di quello di un passero. Era meno intenso dello schiocco di un bacio appassionato ma più sentito di un cauto sfiorarsi di labbra.
Tum tum
Era come sentire i passi di qualcuno di conosciuto, qualcuno di conosciuto ma lontano che piano piano si avvicinava. Qualcuno che, una volta arrivato nel cuore della notte, per non svegliare chi era già addormentato si toglieva le scarpe camminando sul tappeto.
Tum tum
Era il battito del cuore di suo figlio. La sua gioia e la sua condanna. Si sfiorò la pancia. C’era una lieve rotondità che, si rendeva conto, avrebbe notato solamente lei che poteva così accuratamente accorgersi dei cambiamenti del suo corpo. Era ancora in quel periodo in cui, secondo lei, la gravidanza rimaneva qualcosa di segreto tra una madre e un figlio. Nessuna pancia che sottolineasse la cosa agli altri, nessuno che accorgendosi di questa avrebbe potuto fare domande. Era in quel momento delicato in cui solo lei lo sapeva e poteva ancora gelosamente custodirlo. Decise in quel momento di provare disgusto per quelle madri che si facevano toccare il pancione dalle amiche come se fosse un vestito nuovo. Il suo pancione sarebbe rimasto suo, qualcosa da proteggere e non da sbandierare in giro. Decise anche che lei non si sarebbe mai comportata così perché lei non avrebbe mai avuto l’occasione di arrivare a quel punto della gravidanza. Ma l’avrebbe interrotta prima. Ora.
“Abbiamo fatto un grosso casino io e te, lo sai?”
Tum tum

Si asciugò le lacrime e chiamò a gran voce la Madre. Non si sarebbe di nuovo fatta prendere in giro da quel suono lieve e sconcertante che ora le rimbombava nelle orecchie. Era stata debole e, maledizione, dava ragione a Dagon. Se continuava a comportarsi così, a cedere a stupidi sentimentalismi, non sarebbe mai stata degna di lui. E lei voleva esserlo, voleva renderlo orgoglioso di sua moglie, non farlo pentire di averla scelta.
“È colpa tua, tu hai fatto un grosso casino. Io non ti volevo, non ti ho mai voluto. Si può sapere perché hai scelto me? Non voglio fare la madre, capito? Non posso, non so come si fa e ti farei più male che bene.. Mi capisci? Questa cosa non può esistere..”
Tum tum

Richiamò la Madre un paio di volte ad alta voce. Nessuna risposta, nessun alone luminoso, nessun rumore. Nessuno, tranne uno.
Tum tum
“Devi smetterla, ok? SMETTILA!”

Urlò l’ultima parola, sfogando con questa tutta la rabbia verso di lui. Richiamò ancora la Madre e ancora e ancora e mai nessuno le rispose. Continuò fino a che non venne a mancarle la voce e invece le lacrime ripresero a scendere. Si sedette sul letto, sfinita, rannicchiandosi subito dopo sulle lenzuola che avevano ormai impregnato il profumo di suo marito. Si strinse la pancia in un gesto disperato, indecisa se abbracciare quella parte di Dagon che era in lei o se graffiarla via con tutte le sue forze, sperando che se ne andasse da sola sentendosi indesiderata. Con quell’ultimo pensiero tremendo di terribile speranza si addormentò esausta senza rendersene conto quando ormai il sole stava sorgendo.

Poco fa, Castello di PoE, Camera di Dagon {e Ginevra... E Bau}

Era sveglia ormai da quasi un’ora, il sole era ormai tramontato e l’oscurità regnava sull’Isola. Lo aveva deciso appena aveva aperto gli occhi: se la Madre non voleva venire ad aiutarla, lo avrebbe fatto da sola. Non aveva tempo per cercare qualcuno e ancora meno per convincere chicchessia. Aveva bisogno che tutto tornasse com’era prima, aveva bisogno di Dagon e, quando lui sarebbe tornato sperando di avere la camera libera, l’avrebbe trovata. E questa volta sarebbe stata sola, nessun bambino indesiderato in mezzo a loro. Gli avrebbe fatto capire quanto ci teneva a lui, quanto fosse importante... Quanto fosse al di sopra di tutto e soprattutto di tutti per lei.
Aveva passato l’ultima ora a cercare un oggetto con cui tempo fa aveva familiarizzato e non per sua scelta. Non sapeva dove lo tenesse però Dagon, perché non le era mai interessato curiosare tra le cose del marito né, tanto meno, aveva mai avuto bisogno di questa cosa in particolare. Le rimaneva solo il comodino da frugare e fu proprio nel cassetto di questo che lo trovò. Era in un astuccio elegante, di velluto nero, leggero e pesante al tempo stesso per i ricordi che portava con sé. Si sedette sul tappeto ai piedi del letto, tenendolo tra le mani e sfilando con cautela il velluto. Appoggiò la custodia per terra e, con timore e reverenza al tempo stesso, esaminò alla luce della luna ciò che teneva ora in mano. Un bisturi. Se lo ricordava perfettamente e con lui ricordava allo stesso modo il dolore che aveva provato quando Dagon, il suo salvatore, le aveva tagliato entrambi i polsi fino a farla quasi morire… E allo stesso tempo a salvarle la vita.
Era consapevole che quel dolore ora sarebbe stato mille volte più forte? Si. Voleva farlo? Si. Era pronta? Se continuava a pensarci non lo sarebbe mai stata, aveva bisogno di agire subito, di... Eliminare il problema. Non voleva lasciare spazio ai sensi di colpa, non voleva pensare a quello che veramente stava facendo, non voleva pensare nemmeno per un attimo che stava per uccidere suo fi... NO, non era suo figlio. Era qualcuno di indesiderato che stava rovinando la sua vita e quella di suo marito. Era qualcuno a cui aveva sbagliato ad affezionarsi, qualcuno che andava eliminato, un peso che non voleva.
Si alzò, accese la luce,si mise davanti allo specchio.
Si svestì lasciando cadere a terra ogni indumento, il bisturi duro in mano, e, preso un profondo respiro, cominciò a tagliare.
Ginevra non era Dagon, Ginevra non era un chirurgo.
Ginevra non sapeva quello che stava facendo ma lo faceva comunque.
Ginevra era solo guidata dal folle amore per suo marito.
Non aveva idea di quale fosse il punto giusto, di come si tenesse in mano quell’infernale arnese né di come lo si dovesse usare. Sembrava tenesse in pugno un coltello da cucina e, proprio come avrebbe fatto questo, il bisturi nelle sue mani inesperte non tagliava la pelle, la lacerava senza pietà.
Non smise. Non si fermò nemmeno un istante. Non quando iniziò a sentire il dolore peggiore della sua vita, né quando a incredibile velocità il sangue cominciò a uscire copioso dal taglio che le sfigurava la pancia, né quando le sembrò, in lontananza, di sentire dei guaiti e qualcuno o qualcosa, in quel momento non si rendeva conto di nulla se non del suo corpo, che grattava contro la porta.
Continuò a tagliare, gemendo e singhiozzando, insensibile alla debolezza di tanto sangue perso, troppa l’adrenalina in circolo per quel gesto sconsiderato, valutando in quel momento di follia se il taglio bastava oppure no, se era profondo quanto le occorreva. Non lo sapeva, ma sperò di si, perché nella sua pazza logica insensata era ora di incidere verso l’interno, di estirpare letteralmente suo figlio dal suo grembo.
Puntò il bisturi al centro del taglio, iniziando con una smorfia orribile in volto a tagliare verso l’interno. Si fermò solo perché d’un tratto ebbe la sensazione che l’inferno stesso fosse fuori dalla porta. Si girò esitante, il bisturi fermo dentro la ferita aperta, il sangue che continuava a colarle lungo le cosce formando una pozza scura, densa e sempre più vasta ai suoi piedi. Un ringhio basso e sommesso. La porta barcollò. Il bisturi la tagliò dove non doveva perché le stava tremando la mano. Aveva paura e non capiva cosa stava succedendo. Un secondo ringhio, più feroce del primo, più intenso e crudele. La porta questa volta volò dai cardini e un mastino infernale si avventò su di lei senza lasciarle il tempo di accorgersi di quello che stava succedendo.

Edited by • Mirage - 11/10/2012, 21:32
 
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